Differenze dal rock, band e album storici
Il Rock Progressivo è l’ennesima rivoluzione all’interno di un movimento, il rock, appunto, che esce dagli schemi precedentemente prefissati. Ma quali sono i paletti, le regole, che differenziano rock e progressive? Vediamoli assieme: A) A differenza del rock il Progressive non è un genere musicale, ma una filosofia che si estrinseca fregandosene degli ostacoli imposti dal classico brano da 3 minuti. E nell’abbondanza temporale, a volte si generano vere e proprie suite, è presente un’orgiastica contaminazione con vari generi musicali, quali: la classica, la psichedelia, il jazz, il folk ed anche l’elettronica. Il Progressive coinvolge tutti gli elementi della band facendoli esprimere al meglio, tutti sono al servizio di tutti, ed è facile trovare sperimentazioni musicali sposando, come abbiamo già scritto, vari generi tra loro. Questa filosofia tratta argomenti esistenziali, psicologici, fantascientifici, surreali… In poche parole libertà assoluta nella scrittura dei testi. B) Il Prog non è solo la musica dei Genesis, degli Yes, dei Gentle Giant o degli Emerson Lake & Palmer. La musica di ogni gruppo è completamente diversa da quella degli altri, ma tutti vengono mossi dalla stessa voglia di allargare i confini della musica rock. C) Si cade in fallo pensando al Prog come la terra degli assoli, piuttosto vi è la costante ricerca di temi melodici che vengono eseguiti dai vari strumenti e poi vengono sviluppati dall’intera band. Nel prog non troviamo un gruppo che accompagna un cantante, ma un ensemble dove ognuno ha il suo spazio e insieme si lavora per far sì che le composizioni creino dei mondi, dei film in musica nei quali ogni momento serve a rappresentare una scena. I Genesis non indugiavano in assoli, eseguivano temi e variazioni, come nella musica classica.
Spiegata la filosofia del Prog possiamo presentarvi 3 album che non vogliamo presentare come i più belli, ma certamente esempi limpidi di Rock Progressivo, album entrati nella stori della musica per varietà e ricchezza delle sonorità offerte. Sarebbe stato certo il lavoro dei Genesis: Selling England by the pound, ma ne abbiamo parlato nell’articolo editato ieri di cui vi lasciamo il link: https://coachmartinionair.com/video/selling-england-by-the-pound-genesis/
Iniziamo con lo splendido album egli Emerson Lake & Palmer: Tarkus, opera del 1971, rivoluzionaria per quanto eccessiva in tutto e per tutto. Tarkus esprime a 360° l’eclettico mondo degli ELP esprimendo in un solo album lunghe suite, grande dispendio strumentale, assoli chilometrici (ma spesso solo dal vivo), album concept a tema fantascientifico che è facile prendere poco seriamente. Ma guardando oltre ci si rende conto di quanta classe risiedesse nelle dita di Keith Emerson, di quanto bello fosse il canto di Greg Lake e di quanto raffinata fosse la tecnica batteristica di Carl Palmer. Il fantastico racconto di un armadillo gigantesco e corazzato che si risveglia dopo un’eruzione vulcanica è il filo conduttore dell’intera opera che nel 1971 lasciò tutti a bocca aperta. Potrebbe risultare ridicolo tutto ciò, ma non siate prevenuti e ascoltate: la musica è dotata di un’inventiva così travolgente da spazzare via qualsiasi preconcetto.
Insieme agli ELP pietra dello scandalo del prog per le loro esagerazioni strumentali e sceniche, gli Yes l’anno successivo, il 1972, editano Close to the Edge, sono un gruppo di cinque giovani che suonano con il fuoco dentro. Tre soli brani per quello che è da più parti definito come uno degli album più rappresentativi della filosofia Prog. La suite omonima è un assoluto rompicapo di batteria, chitarre, basso e tastiere che sa essere allo stesso tempo astruso e melodico, con un ritornello che si ripete a oltranza. La facciata B è l’apoteosi di And You and I, un pezzo tra folk e sinfonica che ammalia l’ascoltatore, infine le delicate spigolosità di Siberian Khatru, con la sottile voce di Jon Anderson a declamare parole immaginifiche, scelte, soprattutto, per il loro suono.
Non ci dimentichiamo certo del capolavoro dei Pink Floyd: The dark side of the Moon, ma dei magnifici ragazzi inglesi abbiamo già scritto più volte e in questa occasione vogliamo raccontarvi di album a cui non abbiamo ancor dato spazio.
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Ed è così che ci troviamo a scrivere di The Lamb Lies Down On Broadway (1974) è il secondo concept album dei Genesis e il loro primo doppio. E’ il lavoro di un gruppo ormai da tempo completamente maturo che con esso pose una tappa fondamentale in quel particolare genere trasversale che è l’opera rock, una pietra miliare soprattutto per quanto riguarda le rappresentazioni live di questo tipo da parte di quella che probabilmente era l’unica band che all’epoca poteva permetterselo, grazie al particolare modo di proporsi in scena.
I Genesis venivano da una serie di lavori che avevano visto una loro crescita esponenziale sia nella capacità compositiva sia nella tecnica individuale. Non è qui inutile ricordare rapidamente le tappe di questo percorso. “From Genesis To Revelation” (1969) fu l’ingenuo e giustamente pretenzioso disco d’esordio, un concept basato sulla Genesi e il Vecchio Testamento.
“Trespass” (1970), il loro secondo album fu definito dagli stessi Genesis “il passo più importante della nostra carriera” e contiene già pezzi storici come la violenta “The Knife”, rimasta cavallo di battaglia delle esibizioni live fino alla dipartita di Peter Gabriel. Subito dopo “Trespass”, il primo chitarrista Anthony Phillips e il batterista John Mayhew lasciano il gruppo ed esso trova quello che per molto tempo sarà il suo assetto definitivo con l’ingresso di Steve Hackett (chitarra) e Phil Collins (batteria). Con questa formazione i Genesis incidono “Nursery Cryme” (1971), dove la loro musica si definisce meglio, con composizioni che diventano più complesse, articolandosi in vari momenti di tono diverso che si alternano in uno stesso pezzo e testi che, grazie alla forza interpretativa di Gabriel, proiettano in un mondo di favola pieno di metafore e simbolismi. Arriverà alla posizione numero 4 in Italia sollevando il gruppo da una pericolosa depressione.
Segue il capolavoro del gruppo “Foxtrot” (1972), dove tutte le tessere vanno finalmente al loro posto e i cinque sono definitivamente proiettati, dopo anni di difficoltà anche economiche, tra le principali formazioni del Progressive. “Supper’s ready”, la lunghissima suite, capolavoro paragonabile alle migliori performance della musica classica, occupa quasi tutta la seconda facciata, rappresenta per idee, complessità e freschezza uno dei migliori esempi del genere e uno dei più alti momenti di tutti gli anni 70. A questo punto le rappresentazioni on stage subiscono una trasformazione fondamentale quando Peter Gabriel inizia a utilizzare tutta una serie di costumi e maschere, un garbato salto nella psichedelia, talvolta legate ai testi o allo spirito delle canzoni, talvolta, bisogna ammetterlo, dettate più che altro da un intenti spettacolari (per esempio il travestimento da volpe), ma sempre estremamente affascinanti per il pubblico. Anche le scenografie e i light show diventano più complessi, e la fama del gruppo comincia così a crescere anche in patria.
La trama di The Lamb Lies Down On Broadway si snoda con Rael, che è un teppista dei bassifondi di New York che una mattina, di ritorno da una delle sue scorribande notturne, viene colpito dalla visione di un agnello, un semplice ma incongruente agnello, sdraiato quasi a sbarrargli il cammino sul marciapiede di Broadway, tra i vapori che escono dalle grate degli impianti di riscaldamento. Mentre Rael fissa questo animale, una sorta di schermo solido su cui si proiettano immagini della vita di New York scende dal cielo e avanza verso di lui. Paralizzato dal terrore, egli non può fuggire finché lo schermo lo colpisce e al momento dell’urto egli sviene. Si riprende in uno strano mondo sotterraneo dove vivrà una fitta serie di avventure tra il mistico e il simbolico, imparando così a conoscere se stesso.
Dapprima è in un comodo bozzolo che lo fa sentire calmo e felice, tanto che si addormenta tranquillamente. Si sveglia sofferente in una vasta caverna dove deve combattere contro una gabbia di roccia che muovendosi rapidamente lo stringe fin quasi a soffocarlo. Egli scorge fuori dalla prigione suo fratello John che però, nonostante le sue invocazioni di aiuto, lo abbandona, e quando ormai è convinto di morire la gabbia sparisce e si ritrova libero.
Giunge vagando a una strana fabbrica dove vengono assemblati esseri umani, ognuno con il suo bel futuro stampigliato come un marchio e tra i “prodotti finiti” pronti per la spedizione, insieme ad altri personaggi che hanno avuto un ruolo nella sua vita, egli può di nuovo scorgere il fratello. Questa visione di volti conosciuti lo fa riflettere sul suo passato e sulle vicende giornaliere a lui vicine.
Avanzando in una direzione apparentemente obbligata, il ragazzo giunge a un lungo corridoio dove molte persone si muovono lentamente carponi in direzione di una grossa e pesante porta di legno posta all’estremità opposta a quella da cui è entrato. Egli è l’unico che può muoversi liberamente e porre domande a quegli strani esseri condannati a strisciare. Giunto alla porta la apre e dietro trova una tavola imbandita con ogni ben di Dio, ma soprattutto, ben più importante per lui, una scala a chiocciola che sparisce in alto e che egli comincia subito a salire.
In cima alla scala si trova un’enorme caverna circolare dove una folla variegata discute animatamente su quale delle 32 porte che si trovano tutt’intorno alle pareti conduca alla libertà, dato che solo una conduce fuori mentre le altre riportano inesorabilmente indietro. Nella folla Rael incontra Lilith, una vecchia cieca che promette di portarlo in salvo grazie alla lieve brezza che soffia dalla porta giusta e che lei è in grado di cogliere grazie ai suoi sensi affinati da una vita vissuta al buio. Rael decide di fidarsi e si fa condurre in una stanza dove Lilith lo abbandona promettendogli che qualcuno verrà a prenderlo, però teme di essere caduto in trappola quando due globi luminosi entrano fluttuando a mezz’aria e sembrano volerlo aggredire. Terrorizzato, egli raccoglie delle pietre e manda i globi in frantumi, ma non appena questi si spezzano la volta crolla e per il protagonista sembra la fine. Trova però un passaggio tra le rocce e si salva ancora una volta.
Giunge così in una meravigliosa sala con un’ampia piscina di acqua calda e pensa di aver trovato un po’ di riposo, vede invece tre incredibili figure avanzare nuotando. Sono le meravigliose Lamia, esseri metà serpente e metà splendida donna, con le quali ha un’estatica esperienza sessuale. Non appena mordono la sua carne però, le Lamia muoiono e Rael, sconvolto per la perdita, si nutre dei loro corpi.
Lasciando la tragedia dietro di sé, il protagonista giunge a una strana colonia di grotteschi esseri deformi, gli Slippermen, che lo accolgono come uno di loro. Gli raccontano di essere tutti passati attraverso la stessa esperienza con le stesse Lamia, che si rigenerano ogni volta, e sono condannati per questo a passare la vita in una sfrenata e continua attività sessuale. Gli viene così svelata la tragica verità: anche lui è esattamente uguale agli altri e schiavo della stessa condanna, può però finalmente riunirsi al fratello, ridotto anch’egli a un informe ammasso di carne. Rael è sconfortato, ma dopo qualche tempo uno Slipperman gli rivela che se si ha il coraggio esiste una soluzione: si chiama castrazione. A praticarla è un medico pazzo che i fratelli dopo essersi consultati decidono di affrontare.
Il dottor Dyper, dopo averli operati consegna loro un ciondolo contenente il “frutto del peccato” da usare in caso di necessità e grazie al suo intervento, avvertendolo però con un certo anticipo. Mentre i due discutono della nuova situazione, un enorme corvo scende dall’alto e ruba i prezioso contenitore dalle mani di Rael, che chiede aiuto a John, ma quest’ultimo non volendo rischiare il proprio carico, lo abbandona nuovamente al suo destino. Rael si lancia all’inseguimento del corvo in volo, solo per vederlo lasciar cadere il suo tesoro nelle tumultuose acque di un fiume sotterraneo. Mentre Rael scende una ripida parete per arrivare al fiume, ben deciso a riappropriarsi di ciò che è suo, sente delle grida di aiuto e vede il fratello dibattersi tra i flutti del fiume. Contemporaneamente scorge nella parete di roccia un’apertura che porta all’esterno, alla sua vecchia vita, che però si sta rapidamente chiudendo. Deve dunque decidere se fuggire salvando se stesso o salvare John e, pur disperato, volta le spalle alla finestra e si tuffa per salvare il fratello.
La lotta con la corrente è estenuante, ma quando finalmente i due raggiungono la riva il nostro eroe si accorge di qualcosa di incredibile: John ha il suo stesso volto! E mentre lo fissa stupito, come guardandosi allo specchio, una nebbia violacea li avvolge entrambi e in essa i fratelli si dissolvono.
Come si intuisce già dalla complicata trama, The Lamb Lies Down On Broadway è un lavoro monumentale. Nel suo percorso esso sembra procedere per addizioni, tante sono le complessità strumentali e di narrazione che lo infarciscono.
Chi ha seguito il percorso “storico” della band, si accorge subito che qui il suono è diverso, soprattutto il lavoro di Hackett e Rutherford è molto più aggressivo che in passato. In The Carpet Crawlers, si presenta in sordina con una eterea dodici corde e voce, introducendo uno strumento per volta, arriva con un crescendo lentissimo a un climax dove tutto si fonde e si interseca in una grande armonia corale. Probabilmente la migliore canzone dell’album e da sempre un punto fermo per tutti i fan dei Genesis.
La lunghezza media e l’articolazione delle composizioni è minore rispetto agli album precedenti, le canzoni sono più compatte e i ritmi spesso più serrati. L’aggressività è maggiore anche da questo punto di vista, basti ascoltare “Back in N.Y.C., una delle canzoni più “dure” dei Genesis e una delle migliori dell’album, dove la rabbia fa da padrona.
Non mancano i momenti di sollievo, più morbidi, come la sequenza “Anyway” – “The Supernatural Anesthetist”, con due fulminanti assolo di Hackett, breve e deciso il primo, più complesso e spagnoleggiante il secondo, con una delle sue rare esibizioni di virtuosismo sul finale. In “Anyway” c’è anche la migliore interpretazione di Gabriel in tutto il disco. Da segnalare anche la cavalcata finale di “IT” dove sempre il chitarrista sforna un grande riff e Banks va in fuga costante sulla tastiera. S
Abbiamo lasciato per ultimo Peter Gabriel, l’idea principale di dar vita a un concept album è sua, così come la trama e la quasi totalità dei testi. Se il suo lavoro al canto e sulle parole aveva già da tempo raggiunto livelli elevatissimi, con questo doppio album egli arriva a un gradino ulteriore. o forse solo diverso, di coscienza dei propri mezzi. I testi e l’interpretazione di Gabriel si erano sempre caratterizzati per una grande capacità di giocare con la lingua inglese, così ecco giochi di parole, doppi sensi, metafore, storpiature della voce, sussurri e grida alternati in una stessa canzone.
Nonostante vi siano alcune ingenuità linguistiche e di narrazione – per esempio non si è mai visto un teppista portoricano che per approcciare la sua prima ragazza va a comprarsi un manuale sul tema – la fantasia quasi onirica che Gabriel mostra nel rappresentare le vicende di Rael cattura davvero l’attenzione dell’ascoltatore.
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